Intervista a Il Dubbio, di Giacomo Puletti, mercoledì 20 settembre 2023

L’ ex presidente del Pd e leader dei giovani Turchi Matteo Orfini chiede le dimissioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, «un’incapace che dovrebbe riconoscere la propria inadeguatezza» e accusa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni di «andare contro l’interesse nazionale per non contraddire i suoi amici sovranisti dell’est Europa».

Onorevole Orfini, cosa resta dopo i giorni di emergenza a Lampedusa, la visita di Meloni e von der Leyen e la dialettica con Francia e Germania?

Resta la fotografia del fallimento della destra. Nel senso che un anno di politiche aggressive e brutali hanno prodotto una delle emergenze peggiori della storia del nostro paese. Non ha funzionato l’accordo con la Tunisia, perché come già avvenne con la Libia gli accordi con i dittatori non funzionano. Non ha funzionato la guerra assurda alle Ong, perché questa estate dimostra l’inesistenza del cosiddetto pull factor: la gente arriva non certo perché ci sono le Ong. Ed è fallita la strategia sull’accoglienza con gente ammassata a Lampedusa, Porto Empedocle e Trieste, il tutto per l’incapacità di Piantedosi di gestire una situazione che sarebbe gestibilissima,.

Pensa che questa volta si riesca a mettere in piedi una strategia europea di ampio respiro?

Il piano di von der Leyen è IL nulla, ci sono solo cose vecchie. L’unica cosa nuova è la riproposizione della missione Sophia, che il governo chiama blocco navale ma che in realtà fu abolita dal ministro Salvini e dal suo capo di gabinetto Piantedosi proprio perché non era un blocco navale e la consideravano un pull factor. La destra è completamente in confusione e questo produce un dramma per la lesione dei diritti dei migranti che avrebbero diritto a un’accoglienza dignitosa e non ce l’hanno. Ed è un dramma anche per il nostro paese, perché la non gestione produce problemi per i cittadini, di Lampedusa e non solo.

Ha parlato di una situazione che sarebbe gestibilissima: come?

Parliamo di Lampedusa, che è sovraccarica. Noi abbiamo avuto anni in cui più o meno è arrivato lo stesso numero di persone in Italia ma non si è mai vista una situazione del genere. Banalmente perché i barchini venivano “raccolti” dalle Ong che poi li distribuivano su più porti. Nel momento in cui criminalizzi le Ong lasciando il Mediterraneo sguarnito i barchini arrivano lo stesso ma tutti nello stesso posto, cioè Lampedusa. Il secondo elemento, poi, è che si è distrutta l’accoglienza diffusa.

Cioè?

Abbiamo sindaci del Pd che stanno inventando ogni giorno soluzioni per andare in soccorso a un ministro dell’Interno del tutto inadeguato. Bologna ha posti liberi per l’accoglienza diffusa che non può occupare perché le leggi volute da questo governo hanno previsto che quei posti siano destinati solo ai fragili e quindi non ai richiedenti asilo maschi adulti. Sono ragioni ideologiche che hanno dato vita a norme stupide.

Quindi andrebbe ripristinato il sistema di accoglienza diffusa?

Quella era la soluzione. Lo dicono anche i sindaci di destra. Siamo di fronte a un meccanismo che consentiva un’articolazione dell’accoglienza in nuclei sparpagliati sul territorio. Un sistema che di certo ha meno impatto di grandi centri o concentrazioni di persone come quelle che si stanno producendo. È chiaro che avere migliaia di persone ammassate sullo stesso luogo che vanno in giro per quel luogo sia un problema sia per i migranti che per i cittadini. Ma tutto questo è l’effetto del lavoro di un ministro incapace. Dopo un’estate del genere Piantedosi si dovrebbe dimettere.

Eppure il governo dice che i nuovi Cpr saranno costruiti lontano dai grandi centri, proprio per evitare problemi. Non basta?

È una bugia. Propongono di costruire nuovi Cpr, che sono luoghi dove stanno i cittadini che devono essere rimpatriati, ma quest’anno dei 130mila migranti arrivati in Italia ne abbiamo rimpatriati soltanto 3mila. Il problema dei rimpatri non è solo che costano tanto ma che servono accordi con i paesi d’origine, e se questi non ci sono i migranti non verranno mai rimpatriati, a prescindere da quanto li teniamo nei Cpr. E inoltre ci sono seri dubbi di costituzionalità su questo provvedimento.

Gli accordi però non si possono fare con i dittatori del Nordafrica, o se si fanno c’è il rischio che non vengano rispettati. Insomma un cane che si morde la coda… Partiamo dal presupposto che si può rimpatriare solo ed esclusivamente chi non è un richiedente asilo. Con la Tunisia c’è un accordo, anche se fallimentare. Ma ci sono tanti paesi dell’Africa subsahariana con i quali questi accordi non ci sono. Per questo quella del governo è solo propaganda che non cambierà nulla. Sono nel pallone perché prigionieri della loro ideologia che ha fallito ma non possono ammetterlo, visto che hanno passato anni a fomentare con questi temi il proprio elettorato.

Ha criticato il piano di von der Leyen: come si può arrivare a una soluzione europea di gestione dei flussi?

Il problema è che dovremmo combattere una battaglia per la redistribuzione dei migranti, cioè per superare il Trattato di Dublino. È chiaro che tanti sono contrari a questo principio ma la cosa assurda è che la prima a dichiararsi contraria è la Meloni, che facendo questo va contro l’interesse nazionale. Lo fa per non contraddire i suoi amici sovranisti dell’est Europa ma è una posizione che danneggia l’Italia.

Il pensiero della presidente del Consiglio è che la redistribuzione non serve perché vanno fermate le partenze…

È un principio fallimentare, perché le migrazioni esistono da quando esiste l’uomo. L’unico modo per arginare i flussi è costruire canali legali di immigrazione. In queso paese abbiamo bisogno in tre anni di più di 800mila migranti, come scritto dagli stessi Piantedosi e Meloni. Il problema è che non abbiamo canali legali. Il decreto flussi prevede 400mila arrivi ma dobbiamo aprire alla possibilità di immigrazione legale. Ci sono paesi come la Germania che sull’immigrazione legale e sull’integrazione di quegli immigrati hanno creato la propria crescita economica.

Veniamo al Pd: in molti hanno criticato la scelta di Schlein di non farsi sentire di persone andando a Lampedusa, è d’accordo?

Non mi sembra che siamo silenti. Intanto perché su questi temi la Schlein si batte da sempre. E poi perché Pierfrancesco Majorino ( responsabile Immigrazione dem, ndr) è andato a Lampedusa, io stesso sono stato a Trieste che è la frontiera della rotta balcanica e i nostri parlamentari sono impegnati ogni giorni in missioni nei Cpr. Su questi temi stiamo ogni giorno contrastando la linea sbagliata del governo anche con delle proposte, come quelle presentate in queste ore. Ci hanno accusato di boicottaggio ma segnalo al governo che senza lo sforzo dei nostri sindaci allora sì che la situazione sarebbe diventata esplosiva.

In passato ha contrastato con forza la linea del Pd sull’immigrazione, ad esempio votando in dissenso dal partito sui finanziamenti alla Guardia costiera libica: è cambiato qualcosa?

Mi sembra che finalmente siamo su un’altra strada. Ho portato avanti quella linea per anni pur essendo in minoranza e ora sono contento che quelle battaglie siano non di una minoranza del Pd ma del Pd stesso. E mi permetto di dire che il disastro di questa estate dimostra che su questi temi avevamo ragione noi.

Intervista ad Avvenire, di Matteo Marcelli, giovedì 9 marzo 2023

Per Matteo Orfini, deputato ed esponente di punta del Pd, le due informative del ministro Piantedosi sulla tragedia di Cutro, non solo non hanno fatto chiarezza ma, se possibile, hanno addirittura «amplificato le perplessità e i dubbi su quanto accaduto».

Onorevole, il ministro non l’ha convinta insomma.

Per nulla. Nonostante siano passati giorni dalla tragedia, Piantedosi non ha fatto chiarezza sulla catena decisionale e non ha neanche chiarito perché, nonostante ci sano state almeno tre occasioni per farlo, non sia stata attivata una procedura di ricerca e salvataggio. È evidente che stiamo discutendo di un naufragio evitabile, che però non è stato evitato. È chiaro che c’è stato un errore.

Lei crede ci sia una responsabilità del governo per la tragedia?

Abbiamo chiesto chiarimenti proprio per individuare le responsabilità ma questo non è stato fatto, né in commissione né in Aula. La ricostruzione del ministro è stata abbastanza contraddittoria: nel momento in cui al posto &una procedura di ricerca e salvataggio, se ne apre una di polizia e si fa uscire in mare la Gdf (che non ha i mezzi della Guardia costiera); poi la stessa non è in grado di raggiungere il barcone ed è costretta a tornare indietro e a quel punto non si attivano i soccorsi lasciando un barcone alla deriva, è ovvio che si compie una scelta sbagliata. Chi l’ha fatta ce lo doveva dire il governo. Dopo di che, visto che c’è un’inchiesta, a questo punto le responsabilità le chiarirà la magistratura. Però si pone un punto politico.

Quale?

C’è una campagna politica da parte del governo di criminalizzazione delle operazioni di salvataggio e si tende a considerare chi opera per salvare vite umane come l’extrema ratio. Se c’è un barcone alla deriva si tratta la “pratica” come una operazione di polizia, non di salvataggio, e lo si fa per ragioni ideologiche.

Piantedosi si deve dimettere?

Abbiamo chiesto due volte al ministro di chiarire la vicenda e lui non lo ha fatto. Poi ci sono le sue frasi poco dopo la tragedia (quelle sui migranti che non dovrebbero rischiare la vita dei loro figli tentando un viaggio disperato, ndr.), che da sole giustificano una richiesta di dimissioni. Fino a prova contraria il suo ministero aveva in capo la gestione delle operazioni. Siamo di fronte a un errore che ha comportato una strage (non suo personale certo), decine di morti, superstiti a cui non si danno risposte. Non so cos’altro serva per chiedere le dimissioni di un ministro. Credo, anzi, che sarebbe opportuno formalizzare questa richiesta e valutare la presentazione di una mozione sfiducia.

Cosa ne pensa del caso delle salme spostate a Bologna e in altri luoghi?

Quando, assieme alla nostra segretaria, siamo stati a Cutro e poi nel Cara di Crotone, i superstiti ci hanno posto ripetutamente il tema del rimpatrio delle salme e noi lo abbiamo segnalato alle autorità. Ho la sensazione che dal ministero dell’Interno non si sia dialogato molto con i migranti sopravvissuti e i fatti di oggi (ieri per chi legge ndr.) lo dimostrano. Mi pare che una vicenda così drammatica sia stata gestita dal governo con assai poco dialogo e umanità.

Che cosa pensa del ruolo dell’Ue su questo tema?

È chiaro che dobbiamo superare delle politiche sbagliate (avallate anche dal centrosinistra di questo Paese) che si sono basate, per esempio, sull’“esternalizzazione delle frontiere”; come se invece di gestire i flussi si potesse appaltarne il contenimento a regimi autoritari: una strategia fallimentare. Poi c’è il trattato di Dublino (che ricordo fu sottoscritto dal centrodestra). Ed è ovvio che avremo bisogno di ripristinare una missione di salvataggio europea e di aprire canali legali per chi ne ha diritto.

Intervista a Il Riformista, di Umberto De Giovannangeli, venerdì 30 dicembre 2022

Matteo Orfini, parlamentare dem, già presidente del Partito democratico. Il Congresso costituente rischia di ridursi al posizionamento dei maggiorenti del partito su questo o quel candidato alla segreteria. È allarme rosso per il “nuovo Pd”?
Sicuramente è un congresso diverso dagli altri. Nel senso che la situazione del Pd è più grave. Noi abbiamo subito una grave sconfitta politica alle elezioni. Ha vinto una destra che ha costruito la sua vittoria culturalmente e politicamente nel Paese. E poi perché il ruolo storico del Pd, quello che noi stessi abbiamo immaginato quando lo fondammo, è messo in discussione oggi. Perché è insediato da altre due forze – il Movimento 5 Stelle e il Terzo polo – che a volte sembrano fare opposizione più al Pd che alla destra. E perché anche dentro il Pd oggi c’è chi pensa che non si possa tornare più ad un grande Partito democratico come lo abbiamo pensato e che quella funzione storica sia ormai superata. È chiaro che il combinato disposto di tutte queste cose mette a rischio l’esistenza stessa del Pd. Per questo il Congresso è ancor più importante. Perché noi dobbiamo costruire la rinascita del Partito democratico. Io penso che un congresso è l’inizio di una fase di ricostruzione e di rifondazione. Una fase che sarà lunga. È dentro il lavoro di opposizione che noi ricostruiremo il Pd. E lo stiamo già facendo. Io lo so che è poco percepibile, perché siamo in una fase di transizione, c’è il congresso, siamo in attesa di un nuovo gruppo dirigente. Però le battaglie che stiamo conducendo in Parlamento, le notti a tenere lì il Governo per provare a cambiare la legge di Bilancio, per bloccare il decreto rave, per difendere le navi delle Ong, sono già degli elementi rifondativi. Perché dall’opposizione definisci una gerarchia delle priorità su cui combattere. In quelle battaglie di opposizione ci sarà la rinascita e la rifondazione del Pd, se sapremo farle bene. Quello che ho suggerito a tutti i candidati è di vivere questa campagna congressuale anche come fosse un pezzo della battaglia di opposizione, cioè di mettersi da candidati già alla guida dell’opposizione al governo Meloni.

Dario Franceschini nel sostenere la candidatura di Elly Schlein ha affermato che è tempo che la vecchia generazione di dirigenti si faccia da parte per favorire il rinnovamento.
Quello di Franceschini mi sembra un tentativo un po’ strumentale di non discutere di politica. In questa discussione congressuale sembra che noi dobbiamo cambiare tutto tranne la linea politica che c’ha portato al disastro. Una linea che Franceschini, come altri, ripropone. La sfiducia che il Pd possa convincere gli elettori e che quindi possa salvare se stesso solo nella ricerca di alleanze più o meno naturali o innaturali, che è stata in questi anni la cifra della segreteria Zingaretti e purtroppo anche di quella di Enrico Letta. La rinuncia a un profilo identitario del Pd in nome della ricerca di alleanze che poi neanche si è riusciti a fare. Oggi Dario ripropone di fatto quella linea, sostenendo che noi abbiamo il merito di aver spostato i 5Stelle nel campo del centrosinistra. Ho visto che la stessa cosa ha detto Goffredo Bettini, più o meno con le stesse parole. Io ho un dubbio che vorrei girare a Franceschini e Bettini…

Lo faccia dalle colonne de Il Riformista.
Ma cos’è che definisce l’appartenenza ad un campo? Una intervista di Franceschini e Bettini o una scelta politica? Perché io registro che nelle elezioni politiche l’M5S ha rotto di fatto l’alleanza con noi, favorendo la vittoria del centrodestra, e la stessa cosa sta facendo nel Lazio, rompendo l’alleanza con noi. Poi lì non riuscirà a far vincere il centrodestra, perché D’Amato vincerà le elezioni regionali, però sicuramente complica. Quella strategia ha sacrificato l’identità del Pd al rapporto con i 5Stelle. In questo modo siamo diventati un partito assolutamente evanescente nel profilo identitario e in più non ha prodotto alcun risultato elettoralmente utile, fin qui solo guai. È stato un fallimento totale. Noi possiamo pure rinnovare tutta la classe dirigente ma se lo facciamo mantenendo la linea del disastro produciamo un altro disastro.

La linea, l’identità, tutto ok. Ma lei, alla fine, con chi si schiera nella corsa alla segreteria Pd?
Per tutto quello che ho provato a spiegare, voterò Bonaccini. Perché in una situazione del genere mi sembra la soluzione più solida. Lo dico con tutto il rispetto e anche l’affetto per gli altri candidati, perché candidarsi alla guida del Pd in un momento così complicato è comunque un merito. Quella di Bonaccini mi sembra la soluzione più solida e anche quella che consente di ricostruire un Pd che abbia l’ambizione di tornare ad essere quello che abbiamo fondato. Mi lasci aggiungere, infine, che non mi ha mai convinto l’idea che la sinistra nel Pd ne sia solo un pezzo. La parola “sinistra” non può essere chiusa in una sola parte del Pd. Il Pd deve essere un partito di sinistra e credo che ci sia un grande spazio dentro la candidatura di Bonaccini per portare idee, battaglie di sinistra e renderle non battaglie di una minoranza del Pd ma di tutto il partito. E questo proverò nel mio piccolo a fare.

Intervista ad Avvenire di Roberta D’Angelo, domenica 2 ottobre 2022

È sconfortato, Matteo Orfìni. Già presidente del Pd, leader della corrente dei “Giovani turchi”, membro della Direzione, non condivide affatto il dibattito che si è aperto all’in­domani della sconfitta. «Non pos­siamo sottovalutarne la dimensione», dice.

Che intende?

È stata una sconfitta politica, il fallimento della linea messa in campo in questi anni, ci ritroviamo al punto di partenza di quat­tro anni fa.

Ma si tratta di due linee ben diverse…

Sì, ma nonostante due linee completamente diverse siamo al punto di partenza e questo suggeri­rebbe di non sminuire e non na­scondere la polvere sotto al tap­peto, anche perché è vero che ab­biamo preso il 19 percento, ma tra i nostri eroici elettori non ne ho trovato uno felice di votarci.

Chi nasconde la polvere?

Ho visto questo percorso molto ar­ticolato lanciato dal segretario. Penso che non dobbiamo dare l’i­dea di voler diluire la discussione in modo burocratico. Il discorso deve essere vero.

E cioè?

Non vorrei rifare le Agorà, parla­re di tutto tranne che di politica: va bene discutere per capire come rifondare il Pd, ma dobbiamo af­frontare anche i nodi politici e dir­ci se davvero crediamo ancora nel Pd. Leggo e sento tanta sfiducia anche nel gruppo dirigente che il Pd possa svolgere ancora la fun­zione per cui è stato pensato. C’è l’idea che il Pd non possa più essere quel soggetto politico che è in grado di rappresentare una parte larga del Paese e di sfidare la destra.

C’è pure chi dice che il M5s ha saputo rappresentare il disagio so­ciale meglio di voi.

Questo è vero, ma la risposta che viene data è che dobbiamo allearci con i 5 stelle. E non come migliorarci per rappresentare noi il disagio sociale. Ma così si diventa un partito dell’establishment, la cui unica funzione è provare a stare al governo. Questo è stato il nostro fallimento. Abbiamo spiega­to agli elettori che Conte è di sini­stra – cosa peraltro abbastanza discutibile -, che era il nostro punto di riferimento e ci sta che qualche nostro elettore gli ha anche cre­duto. Oppure che Carlo Calenda era un sincero riformista. Abbia­mo delegato tutto agli altri, rinun­ciando a quella che è la prima fun­zione di un partito, cioè rappre­sentare un pezzo di società e conquistare consenso.

C’è pure chi, come Rosy Bindi, di­ce che dovreste sciogliervi in un’alleanza con il M5s.

Lei non crede più alla funzione del Pd, ma ha il merito di averlo detto chiaramente. Ha detto quello che anche altri pensano: che il Pd è un progetto fallito. Io credo che quel progetto debba essere salvato, ma definito e ripensato radicalmente.

Giovedì la direzione farà chiarez­za?

Io dico di affrontare i nodi, poi vanno bene le fasi e tutto quello che Letta ha indicato, a patto che non serva per eludere i problemi poli­tici, perché questa sensazione ce l’ho avuta in realtà. Noi parliamo di un organismo dirigente eletto tre ere geologiche fa, figlio di un congresso in cui i candidati erano Martina, Giachetti e Zingaretti: uno ha abbandonato la politica, un altro ha cambiato partito e il terzo si è dimesso da segretario dicendo più o meno che questo partito gli faceva schifo.

Letta ha parlato di aprire ai non i­scritti e di terminare con due no­mi alle primarie.

Lo Statuto già prevede questo. Il nostro Congresso prevede che la linea politica sia legata a una candidatura quindi è chiaro che ci ar­riveremo, ma penso che non pos­siamo rinviare troppo perché vi­viamo una fase delicata. Abbiamo bisogno di un gruppo dirigente le­gittimato nuovo.

Prima delle regionali?

In 3-4 mesi va fatto tutto. Lo suggerisce la politica, ma il tema del­le regionali non deve influire. Dob­biamo consentire al gruppo diri­gente del Lazio di preparare le elezioni senza caricare questa di­scussione delle scadenze ravvici­nate. Ovvio che avere un gruppo dirigente legittimato aiuterebbe anche le prossime elezioni.

Candidati ne avete già parecchi. Saranno troppi?

Sono rimasto stupito da chi si è candidato il giorno dopo la sconfitta, che non ha colto il senso del­la sofferenza dei nostri elettori e dei nostri militanti. Ho condiviso il ragionamento di Stefano Bo­naccini (il presidente dell’Emilia­ Romagna, ndr), che ha rispettato tempi e modi della discussione.

Teme che le correnti impediscano il percorso?

Non sono per la demonizzazione delle correnti, ma non vorrei af­frontassimo il passaggio ingab­biati dall’istinto di conservazione del gruppo dirigente. La voglia di innovazione si vedrà dalle scelte che si faranno a breve, a comin­ciare dai capigruppo parlamenta­ri. Bisogna evitare forzature, per­ché siamo in una fase di transi­zione e c’è bisogno di grande equilibrio.

Intervista a Domani di Daniela Preziosi, giovedì 29 settembre 2022

Matteo Orfini il presidente del Partito democratico dell’era renziana, anche se con Renzi condivideva quasi solo l’idea della centralità del partito. È stato anche reggente del Pd. Oggi, fresco di rielezione alla camera, è diffidente verso la richiesta di rallentare il congresso post disastro. E lancia un allarme: il Pd rischia di innescare la marcia indietro e spaccarsi fra chi vuole il ritorno dell’asse giallorosso e chi guarda verso Renzi e Calenda. Per lui l’unica strada è rifondare il Pd. Vasto programma, però. Che ci spiega. 

Quattro anni fa, dopo il precedente crollo elettorale del Pd, ne ha proposto lo scioglimento. Non è successo. Oggi ripropone la stessa provocazione?

Non era una provocazione allora, anche se riuscì nel capolavoro unico di unire tutto il Pd contro quella proposta. Dico: sciogliamo e rifondiamo il Pd. Già allora era evidente che avremmo dovuto ridefinire il progetto del Pd. Oggi siamo ancora lì: il mondo è cambiato, si è esaurita la spinta espansiva, il Pd è diventato un soggetto respingente. Non basta cambiare gruppo dirigente. Oggi qualcuno in più di allora capisce che o affrontiamo con coraggio un passaggio radicale o ci estinguiamo.

Dal 2007 il Pd ha sempre perso voti e elezioni nazionali. Con quest’ultima, siamo alla quarta sconfitta di fila e alla quarta volta, con segretari molto diversi, che non riesce a mettere insieme uno schieramento che abbia in numeri per governare.

La funzione con cui pensammo il Pd non era quella di mettere insieme un campo, ma di essere il campo.

E allora è peggio: il vostro “campo” in 15 anni è passato dal 32 al 19 per cento.

Abbiamo perso perché abbiamo passato gli ultimi quattro anni a credere che l’unico nostro progetto politico fosse la costruzione del campo largo. Le alleanze sono uno strumento, non un fine. La subalternità del Pd sta nell’aver considerato sé stesso solo nel rapporto con gli altri.

La vocazione maggioritaria, cioè, dice lei, fare del Pd un “campo”, non è stata sconfitta ancora una volta?

Appunto, dobbiamo ridefinire il nostro progetto. Oggi la fluidità dell’elettorato è enorme, ci sono partiti che passano dal 6 al 30 per cento. Anche noi abbiamo ondeggiato fra il 40 per cento e il 18. Quando siamo stati in grado di accendere entusiasmo e presentare un progetto al paese, abbiamo convinto l’opinione pubblica. Ma ormai abbiamo rinunciato; abbiamo pensato che non servisse un progetto ma bastasse l’alchimia delle alleanze. Il risultato è che vince Meloni e noi ci troviamo schiacciati fra Calenda e Conte. Anche la risposta alla sconfitta di alcuni autorevoli esponenti del mio partito tende a riproporre lo stesso errore. Dire che il problema è non aver fatto le alleanze significa a non vedere l’enorme problema di identità che abbiamo. E proporre di fare un congresso fra chi vuole sciogliere il Pd nel contismo e chi nel calendismo. Siamo senza identità e senza progetto, il risultato è che anche quando discutiamo ci dividiamo sugli altri. Attenzione, assecondare questa strada porta alla fine del Pd.

Il Pd non deve decidere se essere un partito che dialoga a sinistra, oppure al centro, posto che evidentemente le due forze che incarnano le due diverse direzioni sono incompatibili?

Messa così è messa male. Il Pd nasce per superare i Ds e la Margherita, e cioè l’idea che ci si dovesse dividere fra un partito di sinistra e uno liberale. Questa idea è da buttare? Per me no.

Quest’idea vi ha portato di sconfitta in sconfitta.

A volte è andata meglio, a volte peggio. Adesso va peggio e per questo il progetto va ridefinito. Qualcuno crede che il progetto sia fallito? Lo dica. Invece nessuno lo esplicita, resta un non detto. Per questo non dobbiamo rallentare la discussione congressuale. Chi parla di una costituente cosa intende in realtà? Che dobbiamo avviarci ad abbracciare il contismo? Io vorrei che prima discutessimo se il M5s è di sinistra e che cos’è la sinistra oggi. Oppure al contrario dobbiamo confluire nel macronismo calendiano? No, dobbiamo mantenere l’ambizione del Pd, rifacendolo da capo.

Come?

Non dico che dobbiamo tornare al Lingotto, perché nel frattempo è cambiato il mondo. Ma non conosco uno solo dei nostri elettori che non ci abbia votato controvoglia, non ce n’è uno che ci ha votato felice. Tutti dicono che il Pd si deve aprire e deve cambiare.

Insisto, cambiare come? Letta ha “aperto” il Pd con le Agorà, ma non ha funzionato.

Le agorà erano convegnistica, anche se le abbiamo raccontate come grandi momenti di partecipazione. Ma tu partecipi se contribuisci ai processi politici. Il Pd all’inizio ha avuto forza perché su un’elaborazione condivisa proponemmo uno strumento di partecipazione come le primarie, che davano la sensazione a chiunque di contribuire alla fondazione del partito. O siamo in grado di attivare meccanismi in cui insieme si ridefinisce la cultura politica e il progetto di un soggetto riformista nell’Italia del 2022, e di smantellare un modello organizzativo che non ha più senso e immaginarne uno più aperto, o il Pd è finito. Diventa un partito dell’establishment, con un gruppo dirigente, di cui faccio parte, che si tutela in una funzione sempre più marginale. Abbiamo ancora il coraggio di credere nel Pd, e di metterlo in discussione, comprese le rendite di posizione? O andiamo avanti a cicli in cui la nuova fase è la negazione di quella precedente?

Non serve un partito del socialismo europeo, come quello spagnolo e tedesco?

Ma noi lo siamo già. Non sappiamo cosa siano i Cinque stelle, ma noi siamo il Pse. Serve una forza radicata nei nuovi conflitti della società, ma è una discussione da fare tutti insieme. A me piace il Psoe, ma non tutti i partiti socialisti europei sono in grande spolvero.

La questione del lavoro è dirimente. Quando Letta ha annunciato il superamento del jobs act, mezzo partito ha storto la bocca. E non è scoppiata la bufera solo perché eravate in campagna elettorale.

Il jobs act è già stato superato. Ma vogliamo costruire una fase nuova sulle divisioni passate? Pensiamo di interpretare il mondo del lavoro candidando due ex segretarie sindacali? Intendiamoci, saranno due straordinarie parlamentari. La sconfitta della precarietà e la sicurezza del lavoro sono temi su cui fondare il nuovo partito. Ragioniamo e ridefiniamo un punto di vista comune, invece di agitare queste differenze su vecchie logiche interne. L’idea del lavoro che hanno i Cinque stelle non è la nostra: per noi è il perno della cittadinanza, non è solo il salario. Il reddito di cittadinanza è sacrosanto, anche se dovrebbe essere fatto meglio, ma non si può ridurre tutto al reddito. Non è mai stata questa l’idea del lavoro della sinistra italiana. Ed è diversa anche da quella di Calenda, che ha un’idea più liberal-liberista. Il Pd nel campo progressista è la forza maggiore. Di fronte a una sconfitta di queste dimensioni o la seppellisci o la rifondi. Gli accordini fra noi non ci salveranno.

Il Pd rischia il declino, o la scissione?

Oppure una rinascita, una rigenerazione. Perché le persone tornino a essere felici di votarci. È possibile, si tratta di avere coraggio e mettersi in discussione. Fare melina no: è vero che non risolveremo tutto con un congresso, e che il balletto delle autocandidature è ridicolo e respingente. Ma il nostro futuro è allinearci al grillismo o al calendismo, o rilanciare la funzione del Pd? Su questo va fatto il congresso subito, perché chi lo vince abbia un mandato chiaro in una delle tre direzioni. Le elezioni politiche sono fra cinque anni, lasciamo i territori liberi dai condizionamenti nazionali per fare le alleanze più larghe alle amministrative. In parlamento faremo opposizione. Ma oggi dobbiamo decidere cos’è il Pd, non con chi si allea.

Una proposta politica è una proposta di governo, quindi di un sistema di alleanze. Se no si rischia la testimonianza.

No, la Lega e Meloni, hanno puntato sulla propria identità, al di là dell’alleanza. Perché per noi deve essere impossibile? Avverto: Conte e Calenda puntano su questo, per farci diventare irrilevanti.

Quando chiede l’“apertura” del Pd, pensa a Elly Schlein segretaria?

Sono felicissimo che Elly abbia combattuto nella nostra lista, e portato la sua carica, e che di fatto il nostro ticket sia stato Letta-Schlein. Ma non è finita benissimo perché un nome non è risolutivo. Ed è un nostro errore tipico: pensare che il leader di turno risolva i problemi. La prima a dirlo è Elly.

Intervista a il manifesto di Adriana Pollice, martedì 9 agosto 2022

Matteo Orfini era tra quelli che il 26 luglio, durante la direzione del Pd, aveva messo in guardia il partito sulla difficoltà di siglare un patto con Azione: «Non si può essere il partito ambientalista rivendicato da Letta – le sue parole – se poi sei alleato con chi, come Calenda, propone il nucleare».

Era una strada difficile fin dall’inizio.
Ero non l’unico a segnalare che un tentativo per accordarsi con Calenda andava fatto ma questo portava con sé alcune difficoltà. A partire dall’operazione che stava facendo raccogliendo chi era uscito da Forza Italia, cosa per noi molto complicata da digerire, ma anche per le caratteristiche e il modo con cui è solito vivere la sua attività politica, per così dire. Avevo segnalato quello che Letta sapeva benissimo, che sarebbe stata un’operazione in salita. Il segretario ci ha provato in tutti i modi, merita il Nobel per la pazienza. Se non c’è riuscito lui vuol dire che proprio non era possibile. Se addirittura si considerano gli ambientalisti un nemico contro i quali rompere un’alleanza, allora davvero si era nel posto sbagliato. Sulle soluzioni si può discutere, ma mettersi nella posizione di considerare chi difende l’ambiente un problema non è possibile.

Chiuso il patto il 2 agosto tra Pd e Azione, il commento è stato: «Accordo importante per vincere nei collegi ma di Calenda mi preoccupa l’atteggiamento». Fino a invocare tre giorni dopo un hacker per bloccargli i social.
Era un accordo al quale avevamo lavorato con grande generosità sia sul terreno delle concessioni sul computo di seggi e collegi sia nel riconoscimento di alcuni punti che Calenda poneva. Ma nel patto era compreso il fatto che avremmo fatto un lavoro analogo e speculare con Sinistra italiana e Verdi, Calenda lo sapeva. Che fosse tutto chiaro lo hanno confermato gli amici di +Europa, era tutto evidente e alla luce del sole. Dopodiché, conoscendo il leader di Azione, avevo qualche perplessità sulla tenuta dell’accordo. Abbiamo passato anche troppo tempo a discutere di Calenda, in bocca al lupo, spero che smetta di fare la campagna elettorale contro il Pd ma provi anche lui a togliere voti alla destra.

«Il miglior alleato del Pd è il Pd» è la tua posizione assunta via social. Marcando la distanza dal tema alleanze.
Quando c’è un fatto traumatico per il paese come la fine del governo Draghi, al di là di quello che legittimamente ognuno pensa su quell’esperienza, il compito principale di una grande forza politica è cercare di sconfiggere la tentazione di una parte dell’elettorato a non partecipare al voto. E poi convincere gli elettori che si possono e si devono fare le cose per cambiare il Paese. Ed è più facile parlando agli italiani di temi e problemi con un profilo più netto di quello a cui in questi anni abbiamo abituato gli elettori, piuttosto che con le alchimie delle alleanze. Per fortuna la fase di costruzione dello schieramento è finita, possiamo cominciare la campagna elettorale. Ho apprezzato la pazienza e la perseveranza per costruire un’alleanza più larga possibile, oggi siamo con Si, Verdi, + Europa, convinciamo gli elettori. Il tutti contro la destra non basta.

Uscito Calenda è possibile ricostruire il campo largo con i 5s?
È una vicenda chiusa definitivamente.

Senza un pezzo di centro cambierà la proposta del Pd? Verrà meno il richiamo a Draghi?
Dobbiamo mettere al centro l’agenda dei dem che è fatta anche di alcune cose che abbiamo provato a mettere nel programma del governo Draghi: salario minimo, rinnovo dei contratti, il contrasto alla diseguaglianze. Da quel pezzo dobbiamo ripartire. Certo, quell’agenda era figlia di un compromesso con forze differenti, ci sono cose che riconosciamo come nostre più di altre. I temi ambientali sono un’enorme questione, fondamentale per ridefinire un modello di sviluppo per il Paese, non possiamo far finta di non vedere la gravità della situazione. Ridefinire il modello di sviluppo significa anche costruire una società in cui il lavoro non sia povero, la precarietà venga combattuta come ha fatto il governo spagnolo, ci sono riforme che non possiamo più ritardare come il salario minimo. Ambiente, questione sociale e diritti civili sono i temi su cui caratterizzare la proposta di governo.

I nuovi assetti cambiano anche gli schemi per le liste?
Dobbiamo mettere insieme una squadra di candidate e candidati convincente. A noi spetta di fare bene la lista del Pd e poi trovare la quadra negli uninominali valorizzando il contributo degli alleati. Adesso è più facile perché la coalizione è abbastanza omogenea, la discussione potremo affrontarla con più tranquillità.

Intervista a Il Riformista di Umberto De Giovannangeli, mercoledì 13 aprile

Tra gli esponenti di spicco del Partito democratico, Matteo Orfini, parlamentare dem, è considerato uno dei più vicini al mondo pacifista. E, cosa rara di questi tempi, è uno dei pochi che non parla il “politichese”.

 “Cala il sipario sulla sinistra italiana”. Così questo giornale titola un articolo di Donatella Di Cesare. Afferma Di Cesare: “Non era mai avvenuto che il popolo di sinistra si sentisse così tradito nei propri più alti ideali da coloro che hanno promosso una politica militarista. Prima hanno deciso l’invio delle armi, poi hanno votato l’aumento delle spese militari, ora sponsorizzano un’economia di guerra”. A lei la replica.

A me sembra una visione discutibile, forzata, di quello che è la sinistra e la sinistra italiana. Anche perché dentro la storia della sinistra italiana non c’è solo una componente, che c’è sempre stata, di pacifismo integrale. Ma c’è, e direi in una dimensione maggioritaria dentro la storia della sinistra, l’idea che sia lecito e giusto combattere contro gli oppressori, anche prendendo le armi. La sinistra italiana nasce dalla lotta di liberazione antifascista, che non fu fatta con i fiori ma condotta con le armi. Per anni, anche in maniera faticosa e dura, nella sinistra abbiamo discusso i limiti dell’uso della forza…

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Intervista a Il Dubbio di Giacomo Puletti, mercoledì 9 febbraio

Matteo Orfini, ex presidente del Pd e ora “giovane turco” con un ruolo di primo piano nella rielezione di Sergio Mattarella, riguardo alla legge elettorale spiega che «occuparsi del funzionamento della democrazia è sempre una priorità» che «oggi il proporzionale è la linea del Pd perché così è stato votato nel momento in cui è stato accettato il taglio dei parlamentari», e sui problemi interni al M5S la famosa frase “Conte punto di riferimento fortissimo dei progressisti” «è stata consegnata alla storia e per fortuna non è più un tema».

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Intervista a Il Foglio.it di Simone Canettieri, martedì 8 febbraio

Matteo Orfini, la crisi del M5s indica al Pd l’ora del proporzionale?

“Sì, non solo la crisi dei grillini ma anche la fatica dei partiti in questa fine legislatura dimostra che l’organizzazione in coalizione forzate non interpreta più l’interesse del paese”.

Ma il M5s rischia di essere una palla al piede per il Pd.

“Il problema non sono loro, ma il tentativo di costruire una coalizione che tenga insieme da Conte a Renzi, fino a Calenda, Fratoianni, Bonino. Mentre avremmo bisogno che ognuno rafforzasse il proprio profilo per misurarsi con gli elettori. Per questo serve il proporzionale”.

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Intervista a Il Giornale di Laura Cesaretti, giovedì 3 febbraio

Matteo Orfini, ex presidente del Pd e leader della corrente di sinistra dei «giovani turchi», è stato uno dei primissimi sostenitori (e animatori parlamentari) della soluzione Mattarella bis. E oggi non nasconde la soddisfazione: «È stata la scelta migliore: quella di non cambiare i due più autorevoli leader italiani, al Quirinale e al governo. Non una “sconfitta”, come scrive qualche commentatore, ma una vittoria della politica. Grazie alla spinta di un Parlamento che, man mano che si prolungavano i faticosi tentativi di accordo tra i capi politici, si è ripreso una centralità a lungo penalizzata. L’unica sconfitta è quella di chi voleva il voto anticipato, in primis Giorgia Meloni».

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