Intervista di Francesca Schianchi, La Stampa, lunedì 2 settembre

Da giorni chiedo al presunto statista Conte di mostrare discontinuità sul tema migranti, ora per disperazione mi trovo obbligato a rivolgermi al segretario Pd Zingaretti e ai capigruppo, Marcucci e Delrio, che stanno trattando sul governo», chiama in causa i compagni di partito l’ex presidente dem Matteo Orfini sulla vicenda Mare Jonio, più di trenta persone bloccate su una nave dal divieto di sbarco deciso da Salvini.

Cosa dovrebbero fare Zingaretti, Delrio e Marcucci?

«Al M5S abbiamo chiesto discontinuità, nei nomi e nei contenuti: sui nomi l’ipotesi è già tramontata, almeno sui contenuti dovremmo pretenderla».

Il suo segretario ha chiesto lo sbarco pubblicamente.

«Non è questione di un tweet. Se stiamo facendo questa trattativa per superare le politiche oscene di Salvini, io avrei detto: prima di tutto, fateli sbarcare. Poi si tratta. Invece stiamo qui a parlare del numero dei vicepremier: Franceschini fa un tweet, Orlando lo ritwitta, Gentiloni ritwitta Orlando che ritwitta Franceschini. Per il mio partito conta più il numero di chi va al governo del numero di esseri umani sequestrati. Sarà che a me interessa assai poco perché non ci entrerei mai».

Non sarà che ne parla così perché il suo nome non è girato nel totoministri?

«Ho letto che il mio nome è entrato in una “black list” del M5S. E ne sono orgoglioso».

Sul tema immigrazione quali paletti dovreste mettere?

«Si smetta di fare la guerra alle Ong. Si metta mano agli accordi con la Libia. Si faccia una legge quadro sull’immigrazione che superi la Bossi-Fini. E magari, si faccia lo ius soli».

Si possono adottare queste politiche con il M5S?

«È bene capirlo subito. Se nemmeno su questo siamo in grado di ottenere una radicale discontinuità, che ci andiamo a fare al governo?».

Se non ottenete disponibilità su questo tema meglio far saltare la trattativa?

«Non penso che dobbiamo andare al governo a tutti i costi».

Zingaretti è troppo timido?

«Registro che non abbiamo posto lo sbarco dei profughi della Mare Jonio come conditio sine qua non».

Lei definisce Conte «presunto statista». Quanto le costa l’idea di votargli la fiducia?

«Dipende da quello che fa il governo: tra il governo e il voto abbiamo scelto il male minore, ma sempre male è. E un conto è accettare Conte, un altro considerarlo uno statista, dopo 15 mesi in cui ha avallato tutte le scelte peggiori».

Il Pd può arrivare ad accettare Di Maio vicepremier?

«La discussione sui nomi non mi appassiona: un ministro in più non rende accettabili scelte sbagliate. Certo, credo sarebbe più semplice se ci fosse un tasso di innovazione forte, magari totale. Vale per noi e per loro».

Calenda parla di «umilianti genuflessioni a Grillo» dal Pd. E d’accordo?

«Non ho visto il video di Grillo e fatico a considerarlo un interlocutore politico».

Non sia snob.

«Io? Ho letto che ultimamente parla con Dio: io non sono a quell’altezza».

Intervista di Alessandro Di Matteo, La Stampa, venerdì 23 agosto

Matteo Orfini, a un certo punto della giornata ieri il dialogo Pd-M5s sembrava già tramontato. È come dicono i renziani? Zingaretti voleva farsi dire no da Di Maio?
«Mi pare che dopo le parole del presidente della Repubblica si apre il confronto formale. Io penso che il Pd non abbia dato un buono spettacolo ieri. A me è capitato di farle le consultazioni, mai è successo quello che è accaduto in queste ore. Quando si va al Colle, si parla al Colle. Non esiste che ci si parli con agenzie anonime, con esegesi originali di quello che pensa un partito. Questo fa perdere di credibilità a tutto il gruppo dirigente. Noi abbiamo costruito un percorso in direzione, con un ordine del giorno votato all’unanimità. Oggi questo percorso si apre formalmente. C’è il tempo di un confronto. Spero che il Pd dimostri di essere all’altezza della gravità della situazione. Deve cessare la polemica interna». 

Altro che interrompere la polemica interna, sembra che ci siano sempre due Pd: quello ufficiale di Zingaretti e quello che guarda a Renzi. Il leader Pd dice no a Conte, l’ex premier fa sapere che può andare bene anche lui. Come mai?
«Io questa distinzione non la vedo. Abbiamo tutti chiesto discontinuità, ovviamente soprattutto sulle scelte politiche. Ma evidentemente anche sugli interpreti di quelle scelte. Non penso che si possa immaginare che una roba del genere si faccia sostituendo i ministri della Lega con quelli del Pd…» 

Lei dice che non vede la distinzione tra i due Pd, allora perché parla di brutto spettacolo?
«Questa è un’operazione che si può fare solo se il Pd è unito e se smettono i giochetti interni fatti dalla maggioranza e dalla minoranza. Se la smettiamo, si può tentare anche un’operazione complicata come questa. Sennò è inutile imbarcarsi. Anche perché un’ipotesi del genere funziona se il Pd ha chiare le sue priorità. A cominciare da quelle poste da Zingaretti: abrogare i decreti sicurezza e correggere un impianto così brutale, peraltro oggetto anche nelle ultime ore di inchieste della magistratura». 

Poi Zingaretti ha corretto il tiro e ha parlato di «quadro su cui iniziare a lavorare». Come si procede?
«Io sto a quanto abbiamo detto in direzione, noi siamo disponibili a un confronto e oggi un confronto si apre. È chiaro che è un lavoro complicato, il M5S non è una costola della sinistra, è una forza politica alternativa. Certo, in alcune fasi si può arrivare a costruire maggioranze tra forze alternative tra loro: nella passata legislatura facemmo larghe intese con Silvio Berlusconi, e ricorderete con quante difficoltà. Ora, Salvini vuole andare a elezioni per ragioni personali – scappare dalla necessità di chiarire la vicenda russa – e di partito – incassare il consenso che gli danno i sondaggi. Di fronte a questa forzatura istituzionale autoritaria gravissima si può tentare di costruire una maggioranza anche tra forze alternative come sono Pd e M5s. Non è scontato ci si riesca, anzi è molto complicato. Ma si può tentare». 

La prima difficoltà è il taglio dei parlamentari. Per Di Maio è «una priorità». Si può trovare una mediazione?
«Io sono contrario al taglio dei parlamentari come l’hanno proposto loro. Noi, nella nostra riforma bocciata dal referendum, tagliavamo i parlamentari nell’ambito di una riforma complessiva. Nello schema M5s si strozza la rappresentanza e si dà un potere estremo a una minoranza che vince. Il taglio deve essere accompagnato da una riforma elettorale, che per me deve essere di impianto proporzionale, in modo da garantire un equilibrio. Io penso che il M5S possa convergere su un taglio dei parlamentari accompagnato da una legge proporzionale».

Intervista di Eugenio Fatigante, Avvenire, giovedì 22 agosto

Insomma, questo governo con M5s s’ha da fare o no?
Innanzitutto dico che io non ho cambiato idea sui 5 stelle: penso che siano alternativi al Pd, non sono una costola della sinistra. Sono opposti a noi per visione della politica e anche per concezione democratica. 

Però un’intesa con M5s non sarebbe più «la fine del Pd», come lei diceva un anno fa?
Premesso che le condizioni politiche sono mutate, in una democrazia parlamentare e con una legge proporzionale un discorso diverso oggi ci sta. Del resto, abbiamo fatto pure le “larghe intese” con Berlusconi in una fase cruciale per la vita del Paese. E “ci sta”,sottolineo, per opporsi al capriccio di un uomo, al gesto autoritario e arrogante di un leader politico che per interesse personale – quello di offuscare la vicenda non chiarita dei fondi russi – e di partito, vuol far precipitare il Paese in una nuova campagna elettorale. 

Ma quante chance vede?
E’ molto, molto, molto difficile e tutt’altro che scontato. Salomonicamente dico 50 e 50, nessuno si esalta all`idea. Allo stesso tempo, il pensiero di consegnare il Paese all`incertezza, in una fase già di stagnazione, è uno stimolo a dar vita a qualcosa.

I 5 punti sono più un’apertura o un limite?
La discontinuità – di nomi e di programma – è la premessa: il nuovo governo non può proseguire le politiche di questi 15 mesi. I punti sono un inizio di discussione. A partire da una parola definitiva sull’Europa e dalla rimozione degli elementi che hanno caratterizzato in modo più brutale e deteriore le politiche migratorie, creando un vulnus all’impianto dei nostri valori costituzionali. 

Cosa bisogna fare dei due decreti sicurezza?
Io li abrogherei. AI minimo, immediate misure correttive per il ripristino della civiltà in un’Italia in cui, negli ultimi tempi, si è dato libero sfogo a politiche di odio. 

Discontinuità vuole dire anche no a Conte?
Capisco il tentativo di riscrivere la storia, ma non mi pare che Conte sia stato prima dell’altroieri un vero oppositore di certe politiche. 

La discontinuità potrebbe essere chiesta anche da M5s con chi ha fatto parte dei governi Renzi e Gentiloni?
E’ un aspetto che difatti Zingaretti ha messo nel conto, affermando che – nel caso- dobbiamo essere disponibili a far partire un’esperienza politica totalmente nuova. Ciò detto, mi pare tuttavia che il problema riguardi soprattutto loro: noi abbiamo una classe dirigente ampia e diffusa per far fronte a questa esigenza. 

I tempi sono un vincolo forte?
Intanto vedremo i tempi veri che il presidente Mattarella darà e le sue decisioni dopo le consultazioni. Certo, non penso che una trattativa simile si possa risolvere in due giorni… 

Il taglio dei parlamentari resta materia di dialogo?
Io sono contrario alla legge. Può avere senso solo se accompagnata da un sistema proporzionale puro, altrimenti con quello attuale e senza una ridefinizione complessiva produrrebbe una torsione maggioritaria fortissima. 

E il ruolo di Renzi?
A me pare che sono un paio d’anni che viene annunciata dai giornali una scissione che non c’è. Io sono convinto che è e resterà un dirigente del Pd. Ora si è messo in gioco e ha svolto una funzione utile. Tanto che oggi ci ritroviamo, grazie al lavoro di Zingaretti, davanti a una proposta che ha ricompattato il partito come non avveniva da tempo.

Intervista di David Allegranti, Il Foglio, 6 luglio 2019

Sull’immigrazione, ci dice Orfini, il Pd  sta cambiando idee.

“Abbiamo cambiato la linea del partito. La segreteria aveva una sua posizione, ma dopo la discussione – peraltro molto alta nei contenuti – ha saggiamente capito che sarebbe stato meglio sceglierne un’altra”, dice al Foglio Matteo Orfini, capofila del cambio di schema nel Pd sulla Libia. “Ma non è una vittoria mia”, precisa l’ex presidente dei democratici. “E` una vittoria del mio partito, perché penso che da questa settimana il Pd sia più forte”. Oltretutto “credo che gli ultimi 10 giorni possano essere per il Pd una traccia di lavoro su come si fa opposizione e su come si sfidano la destra e Salvini, anche sul terreno apparentemente più complicato per noi. La scelta di essere a Lampedusa, sia a terra sia a bordo della Sea Watch, nel momento in cui c’era il sequestro immotivato da parte del governo di quaranta naufraghi, è stata giusta. Non ci siamo limitati ai tweet e alle dichiarazioni, ma abbiamo dimostrato che alla brutalità del governo ci si può opporre anche con il proprio corpo”.

Il lettore non potrà che cogliere nelle parole di Orfini un riferimento ai tweet di Carlo Calenda, molto critico nei suoi confronti.

“Sono gesti simbolici, per carità, ma danno l’idea di un partito vicino alla gente che soffre e che è disposto a difendere i valori della Costituzione e della legalità fino in fondo. Questa battaglia è servita a rimettere al centro della linea politica sull’immigrazione il tema dei diritti umani e della loro difesa, in Libia oltre che nel nostro paese, dove non dovrebbe essere necessario farlo anche se ormai lo è diventato”. Insomma, sottolinea, Orfini, “abbiamo dimostrato che il Pd può essere percepito come un’alternativa rispetto a Salvini. Avevamo smesso di farlo. Avevamo smesso di fare una battaglia, prima culturale che politica, per metterci controvento e sfidare lo spirito del tempo e provare a cambiarlo”.

Dunque condivide il contenuto della lettera di Matteo Renzi inviata ieri a Repubblica?

“Diciamo che Renzi condivide adesso quello che dicevo io nel 2017. Nel complesso la sua lettera è condivisibile. Renzi e Letta, l’ho sempre riconosciuto, avevano un’altra linea sull’immigrazione, il cambio c’è stato con il governo Gentiloni”. In quegli anni “eravamo in pochissimi a mettere in discussione quelle scelte, oggi per fortuna larga parte del Pd sembra aver capito che dobbiamo ricominciare da un approccio differente”.

In che modo?

“L’altro giorno Serraj ha detto che potrebbe valutare la liberazione dei detenuti nei campi, una frase che è stata percepita come un ricatto e io lo trovo agghiacciante, perché di fronte a un’affermazione del genere avrei sfidato il governo. Avrei detto che quelle migliaia di persone contenute nei lager vanno tirate fuori di lì, aprendo dei corridoi umanitari e andandoli a prendere, perché quelle poche migliaia di persone sono gestibili di fronte alla drammatica emergenza in corso. Eppure non l’ha detto nessuno; l’idea che delle persone vengano tirate fuori dai lager non è una buona notizia ma una minaccia. Le pare normale?”.

Ancora oggi Orfini è convinto che le politiche di Marco Minniti sull’immigrazione abbiano spalancato le porte a Salvini.

“Capiamoci però: non ho mai personalizzato su un singolo, anche perché le scelte di Minniti sono state prese dal governo nella sua collegialità e sostenute da un partito senza che nessuno le mettesse in discussione. La questione non è Minniti, ma la politica che il Pd ha portato avanti”.

Pd allora guidato da Renzi, non dimentichiamolo.

“Quella posizione, secondo cui il tema della sicurezza è legato esclusivamente al tema dell`immigrazione, andava corretta. Specie in un paese come il nostro in cui ci sono mafia e criminalità organizzata. Noi invece di fare argine culturale e politico, abbiamo assecondato questa lettura sbagliata, facendola nostra e cercando di offrire una cura omeopatica. Pur senza gli eccessi della destra, abbiamo provato a governarla secondo quella chiave. Ma la tenuta democratica del paese non è a rischio per l`immigrazione. Non dobbiamo fare a gara a chi ne fa arrivare meno. Anche perché non ci poniamo mai la domanda dove finiscono quelle persone che non arrivano più. Risposta: nei lager. Da troppo tempo ci chiediamo quanti ne arrivano e non da dove e da cosa scappano, che poi era la domanda della sinistra riformista. Da Blair e Clinton a D’Alema e Fassino. Una sinistra che metteva addirittura in conto l’ingerenza umanitaria a difesa dei diritti umani. Noi invece abbiamo abbandonato la strategia del riformismo in politica estera per scegliere di chiudere gli occhi, non considerando imprescindibile la difesa dei diritti umani”.

Intervista di Fabio Martini su La Stampa, 30 giugno 2019

 

Matteo Orfini, lei era bordo quando la capitana ha scartato, forzando il blocco: in quel momento cosa ha pensato? Questa ragazza sta esagerando?

«In quel momento ho pensato: sei fossi io al suo posto, agirei esattamente come lei. Veniva da giorni di prese in giro e noi stessi ci eravamo spesi e ottenuto impegni da parte del governo: se c’è un accordo, scendono in cinque minuti. Lo stato a bordo era diventato insopportabile, per un atteggiamento del governo che non saprei definire altrimenti: agghiacciante. A freddo ho ripensato a quel momento. E mi sono dato la stessa risposta».

Già presidente del Pd, Orfini è appena tornato a Roma dopo ore a bordo della Sea Watch 3. Il più grande partito di opposizione, oltre a dare la risposta “giusta” in termini di coerenza con i propri ideali, dovrebbe sempre provare ad allargare consenso attorno alla sua politica: le pare che ci siate riusciti?

«Sicuramente su questi temi c’è sempre stata difficoltà a convincere l’opinione pubblica e per troppo tempo abbiamo rinunciato a farlo. Ma se una parte del Paese continua a dare una risposta sbagliata, non possiamo continuare ad andargli dietro: dobbiamo contrastarla. E per farlo, non bastano i tweet: servono atti concreti. Davanti al sequestro di 42 persone, era nostro dovere intervenire e aiutarli a scendere. Così si inizia una battaglia di opposizione».

Il prezzo da pagare per una linea umanitaria in questo caso è assecondare una violazione delle leggi.

«Ho molti dubbi che ci sia stata una violazione della legge. Davanti ad uno stato di necessità e per portare in sicurezza persone in quello stato, una nave può violare il blocco».

Lei ha rivendicato spesso la lezione di Togliatti. Ma lui dall’ospedale disse ai militanti: non occupate le prefetture! Lei ha sposato la cultura radicale della disobbedienza civile?

«Non c’è stata violazione della legge e dunque non c’è stata disobbedienza civile».

Ascoltando i discorsi a bordo, non le è venuto il sospetto che al primario obiettivo di salvare quei poveri cristi si sommasse quello di provocare il governo sovranista?

«Assolutamente no. La capitana lo ha spiegato: il porto più sicuro era Lampedusa. A bordo non c’erano militanti politici ma una ventina di persone che avevano il genuino intento di salvare delle vite e non avevano alcun interesse a cercare scontri».

Non le pare che il messaggio che arriva dal Pd sia: vanno accolti tutti?

«È evidente che la questione dei flussi non può essere gestita solo dall’Italia. Purtroppo la guerra in Libia ha peggiorato la qualità dei diritti umani, nei lager vengono perpetrati delitti atroci. Sperando di poter tornare un giorno a politiche come Mare nostrum, dobbiamo prendere atto della situazione di quel martoriato Paese».

Ma sugli accordi da rinnovare con la Libia, persino lei e Delrio che eravate sulla Sea Watch, avete idee diverse…

«Spero che nel Pd ci sia un’evoluzione positiva. Rinnovare gli accordi con la loro Guardia costiera non è più possibile: gli accordi raggiunti dal governo precedente non reggono più, perché è in corso una guerra civile. Spero che ci sia un consenso largo attorno a questa posizione».

Col governo Gentiloni gli sbarchi erano drasticamente diminuiti ma senza chiudere i porti…

«Non dimentichiamo il passato, ma neppure che lì c’è una guerra. E non dimentichiamo neppure la lezione del riformismo degli anni ’90 in Jugoslavia: la garanzia dei diritti umani viene
prima di tutto».

Di Giovanna Casadio, la Repubblica, 18 marzo 2019

«Nicola ha detto che vuole cambiare tutto? Bene, ma lo faccia fino in fondo. Però il Pd non può essere semplicemente il cuore di una coalizione come ai vecchi tempi. Zingaretti deve rilanciare il Grande Pd che punti ancora al 40%». Matteo Orfini ha passato a Paolo Gentiloni il testimone di presidente del partito. È stato sostenitore di Maurizio Martina, lo sconfitto del congresso dem.

Orfini, lei ha votato a favore di Paolo Gentiloni come suo successore alla presidenza del partito?

«Assolutamente sì, con convinzione perché è una scelta autorevole, seria. Poi sono anche sollevato, dopo 5 lunghi anni, di passare a lui il testimone di un ruolo importante ma anche complicato».

Si è schierato con Martina: ora gli sconfitti riaprono il conflitto e la guerra sotterranea?

«Ho sempre riconosciuto la scelta di iscritti ed elettori e quindi rispettato l’esito dei congressi, sia da minoranza quando appoggiai Gianni Cuperlo che da maggioranza quando sostenni Renzi. Ho sempre lavorato per il bene del Pd e questo continuerò a fare».

Non se ne va portando via il pallone, insomma?

«Ci mancherebbe. In questi anni ho visto quanti danni fa un congresso senza fine e chi concepisce la vita interna come scontro continuo. Zingaretti è il segretario di tutti».

Però il Pd di Zingaretti cambierà strada. Questo la preoccupa?

«Qualche mese fa proposi di sciogliere e di rifondare il Pd, quindi se si cambia con me si sfonda una porta aperta. Crescono nel paese sentimenti radicali di contrapposizione alla destra che faticano ancora oggi a considerare il Pd come alternativa. Quindi ok al cambiamento, purché sia reale e non un cambiamo tutto per non cambiare niente».

Ora tutti con Zingaretti, quindi?

«Non ho votato Nicola, non ho interesse o intenzione di entrare in maggioranza, ma di dare una mano al Pd sì. C’è però una cosa che poco mi convince dell’impianto con cui Zingaretti ha vinto il congresso: non possiamo rinunciare a un Pd che sia “il” soggetto politico del centrosinistra e tornare alle coalizioni di un tempo. Cambiamo il Pd, trasformiamolo, rivoluzioniamolo ma non perdiamo l’ambizione di costruire un Grande Pd».

Zingaretti ha lanciato subito il coordinamento parlamentare del centrosinistra, però. È d’accordo?

«Non giudico il primo passo ma mi chiedo dove porti la strada. Io sono affezionato all’idea di un Pd che unisca dentro di sé tradizioni e storie diverse. Non mi piace festeggiare sconfitte onorevoli come in Abruzzo e in Sardegna, ma per tornare a vincere il Pd deve recuperare la funzione originaria e non considerare il 40% delle europee come un caso fortuito, ma come un obiettivo da raggiungere».

Con i fuoriusciti dem ci si può riunire o meglio no come sostiene Giachetti?

«Ogni volta che parliamo del Pd del futuro partendo dalla somma del ceto politico, danneggiamo il Pd e allontaniamo tanta gente che ci potrebbe dare una mano».

Come si ricompatta un Pd in cui, a parole, tutti si dichiarano leali, però poi Renzi lavora e rilancia i comitati civici?

«C’è bisogno del contributo di tutti per ricomporre una frattura persino emotiva con chi soffre di più. Per questo da presidente ho riportato il Pd nelle periferie più lontane, nella baraccopoli di San Ferdinando, sulla Sea Watch».

Intervista di Carlo Bertini, La Stampa, 20 settembre 2018

«Così alle Europee rischiamo di andare peggio che alle politiche. Se continuiamo così, con quattro mesi di risse tra noi e un congresso che si riduce solo ad una resa dei conti, non possiamo illuderci di riavvicinare elettori a questo Pd. Io propongo di ripartire dalle Europee, fermando ora il congresso: i principali leader del Pd e intellettuali di area partecipino scrivendo il programma, candidandosi, facendo campagna, con l’obiettivo di salvare l’Europa. E il futuro segretario sarà quello che dimostrerà di essere più bravo in quella battaglia. Io aprirei le liste insieme ad un processo per rifondare il Pd, con lo stesso nome, ma nuovo, aperto, che vada da Saviano a Calenda, passando per Cacciari. Ovviamente azzerando tutte le cariche di partito».

E il segretario?
«Martina potrebbe restare al timone, affiancato magari da un comitato per guidare il partito. La forma si trova, come si fece quando si fondò il Pd. Ma ciò mette in discussione tutto e tutti e forse per questo spaventa molti».

Presidente, si potrebbe dire che è lei ad essere spaventato da un congresso dove vincerebbe Zingaretti. O no?
«Guardi, noi che siamo maggioranza comunque partiremmo avvantaggiati e quale sia il nostro candidato potremmo vincere. Ma il tema è diverso: io sono molto preoccupato da questo clima e dalla voglia di regolare conti interni, che mi sembra totalmente fuori asse rispetto alle sfide che abbiamo di fronte e anche a quello che chiedono i nostri elettori. I nostri avversari sono già in campagna elettorale per le europee, un passaggio decisivo, la sfida che le nuove destre lanciano per avere maggioranza nella nuova Unione».

Ma come volete fronteggiarli se vi mancano slogan forti su Europa, tasse, povertà e pensioni? Come pensate di riconquistare il popolo perduto?
«Intanto ci manca una visione alternativa. Non possiamo essere quelli che difendono l’Europa dell’austerità, dei vincoli, che nega sostegno quando ce n’è bisogno. Va ripensata un’Europa sociale che sappia essere una risposta ai problemi, costruendo anche un’alleanza. Non possiamo dividerci sul tasso di vicinanza a Macron , ma dobbiamo costruire un’alleanza che va da Macron a Tsipras».

E invece ora vi tocca fare il congresso e non avete un candidato. Renzi può ripresentarsi?
«Se guardo agli interessi personali a ognuno di noi conviene fare il congresso. Siamo pronti e io penso che il candidato che sosterrò vincerà. Quanto a Renzi, lui ha escluso una sua ricandidatura: non mi pare un’ipotesi in campo ed è giusto che sia così».

Intanto il segretario del Pd di Ravenna, che ha organizzato la festa dell’Unità, le chiede di dimettersi.
«Azzerare tutto implica non solo le mie dimissioni, ma anche le sue. Ora abbiamo bisogno di fare qualcosa all’altezza di questa sconfitta. Non possiamo pensare di chiedere a qualcuno di dare una mano nel Pd per come è ora, con filiere, correnti, conta sui nomi. Sarebbe più forte mettere a disposizione tutte le nostre funzioni, a cominciare dalla mia, dicendo: azzeriamo, costruiamo insieme una nuova organizzazione e uno statuto nuovo con tutti quelli che hanno dimostrato di impegnarsi. Lo dico a Cacciari, a Saviano, che giustamente ha fatto appello al mondo intellettuale a reagire culturalmente. E lo dico a Calenda: non serve una cosa diversa, ma un Pd diverso. Cominciamo a portarlo in piazza, aprendo gli steccati e coinvolgendo mondi vicini al nostro nella manifestazione del 30 settembre. Se vogliamo cambiare tutto facciamolo davvero, non si può ripetere la solita conta solo per ridefinire gli equilibri interni»

Di David Allegranti, Il Foglio, 7 agosto 2018

Costruire l’alternativa a un “governo di destra” come quello felpa-stellato è possibile, secondo Matteo Orfini, che rifiuta dialoghi e alleanze con i grillini, da qualcuno spacciati nel Pd per una costola della sinistra. “Considero il M5s di destra”, ha detto sabato scorso in apertura della festa del Pd di Livorno. “Una forza culturalmente e politicamente sovrapponibile alla Lega di Salvini. Credo che il blocco politico nel paese tra grillini e leghisti si sia saldato molto prima che pensassero di fare un governo. Quando noi litigavamo al bar o al mercato con l’elettore che usava argomenti contro la politica, contro le istituzioni, contro la legge sui vaccini, contro qualunque cosa, facevi fatica a distinguere se era un leghista o un grillino”.

Detto questo, c’è da capire come ricostruire il Pd e l’opposizione. Non è semplicissimo per un partito che è stato sette anni al governo o in maggioranza, “perché ci sono persone come me che hanno qualche anno in più e che sono abituati a fare l’opposizione. Ma c’è anche un pezzo del Pd e anche una parte dei nostri gruppi dirigenti e dei nostri parlamentari che per la prima volta si trovano in una posizione del genere e devono imparare a farlo”. C’è anche un problema di identità.

Che cos’è oggi il Pd?
“L’identità del Pd è quella di una grande forza di centrosinistra, che deve evidentemente rideclinare i valori della sinistra in una condizione diversa rispetto al passato. Oggi in Europa ci sono forze estreme di populismi e nazionalismi, c’è il riemergere di pulsioni che credevamo archiviate nei libri di storia. Quello che sta accadendo ogni giorno in questo paese, e che Salvini nega, come il ritorno di violenza a evidente matrice razzista se non fascista in alcuni casi, racconta l’esigenza di costruire una risposta non solo in Parlamento, ma nella società. Perché la sfida nei confronti di questa destra l’abbiamo persa prima culturalmente che politicamente”.

In che modo?
“C’è un pezzo di paese che non vota Lega, ma che su alcuni temi, anche a sinistra, pensa come Salvini. A me questo preoccupa molto di più di quelli che votano Salvini. E questo accade anche perché noi probabilmente negli ultimi anni quella battaglia culturale abbiamo smesso di farla, perché abbiamo immaginato che l’unica missione vera di un grande partito come il nostro fosse governare il paese e cambiare il paese dal governo. Credo che abbiamo governato bene il paese, abbiamo lasciato un’Italia che sta meglio di cinque anni fa, però abbiamo perso drammaticamente le elezioni, perché governare bene non è sufficiente, non basta più”.

La questione è che “noi abbiamo fallito anche perché per una parte del paese siamo apparsi come la forza che cercava di difendere lo status quo, non quella che cercava di sovvertirlo. Oggi ci stupiamo che non prendiamo più voti tra i precari, i disoccupati, i giovani, gli operai, i ceti popolari: sono trent’anni che non prendiamo più quei voti, perché siamo stati percepiti per larghi tratti della nostra storia come quelli che non volevano cambiare gli equilibri di potere e di ricchezza di questo paese, che è chiuso, oligarchico. Una volta abbiamo rotto questo meccanismo, alle europee quando abbiamo preso il 40 per cento, perché siamo stati interpretati come la forza – in quel caso per merito di Renzi che lo trasmetteva quasi in modo pre-politico – che aveva voglia di scassare tutto, di sovvertire gli equilibri, di cambiare le cose. Poi quella forza, percepita di cambiamento, si è evidentemente appannata, o almeno non è arrivato più quel messaggio. Anche perché in alcuni casi non siamo stati in grado di rivoluzionare davvero tutto; non abbiamo avuto uno strumento all’altezza di questo compito”.

Contro le alleanze stravaganti
E adesso la soluzione per curare i mali della sinistra sarebbe recuperare il dialogo con l’elettorato a partire da un dialogo con il M5s? No,
grazie, dice Orfini. “L’idea che siccome un pezzo dei nostri elettori ha scelto di votare il M5s noi ci dovessimo conseguentemente alleare con il M5s a me non ha mai convinto. Ho sempre ritenuto e pensato che qualora ci fossimo alleati con il M5s avremmo certificato la fine della storia della sinistra italiana”. Troppe le cose che dividono: “Casaleggio dice che tra un po’ il Parlamento sarà superato; non è una boutade, non è una sciocchezza, non l’ha detta perché aveva bevuto, l’idea che la democrazia rappresentativa vada superata è l’idea del M5s. L’idea che le istituzioni debbano essere delegittimate, l’idea che non conta ciò che è vero ma ciò che è virale, l’idea che sulle fake news, sulle bugie e sulla demonizzazione dell’avversario si costruisca una vittoria elettorale è la negazione di quello che pensa e crede una persona di sinistra.

Il reddito di cittadinanza non è una proposta di sinistra, il Pci non lo voleva, ma per una ragione: nella nostra Costituzione il lavoro è dignità – ma non come il decreto di Di Maio – il lavoro è quello che costruisce la soggettività politica, è un perno della cittadinanza. Non puoi immaginare che il lavoro sia solo il salario. Questo non significa che nel momento in cui ti trovi in condizioni di povertà o difficoltà tu non abbia diritto a un sostegno, infatti abbiamo realizzato il reddito di inclusione, di cui usufruiscono già un milione di persone. Uno strumento che va ampliato, certo, ma, insomma, da qualunque parte la si prenda, la sinistra con il M5s non c’entra nulla”.

C’è chi dice che bisogna superare il Pd, ma “oltre il Pd c’è la destra”. E’ una battuta di D’Alema, che peraltro ha costruito “una grande scuola di formazione, poi purtroppo è invecchiato male”, ma è una frase “vera, purtroppo. Quando la disse lui non lo era, adesso è diventata. Oggi, se io guardo in Parlamento, a parte uno sparuto gruppetto sotto di noi la cosa più moderata che c’è è Forza Italia, con cui non voglio avere nulla a che fare come prospettiva di allargamento del Pd”. Carlo Calenda, per dire, ha lanciato il “fronte repubblicano”, ma “l’idea di costruire una cosa che tiene insieme tutto ciò che non è il governo attuale vuoi dire immaginare che si possa costruire un soggetto politico nuovo in cui noi e Berlusconi stiamo insieme. A me pare anche questa la negazione della ragione per cui siamo nati. E onestamente non fa per me, non è cosa nostra. Lasciamo Berlusconi a Salvini, tanto più che questo governo è nato grazie al permesso di Berlusconi, che è per finta all’opposizione, ma di fatto è in maggioranza”.

Discorso vale anche per chi è oggi a sinistra perché uscito dal Pd, avverte Orfini: “Non mi convince l’idea che noi risolleviamo le sorti della sinistra rimettendo insieme me, Bersani e D’Alema. Non risolverebbe nulla. Noi abbiamo preso il 18, Leu il 3. Se noi ci rimettessimo insieme sono abbastanza convinto che una parte di quelli che hanno votato per noi non ci voterebbero più e penso che una parte di quelli che hanno votato Bersani e D’Alema non li voterebbero più”. Contro Minniti, voce dal pubblico, parla un elettore livornese: “Mi dovete spiegare una cosa. Come mai noi s’è perso a Pisa? C’è stato un sviluppo esagerato di industrie, di lavoro, eppure… Il mio punto di vista è uno solo: quando uno va all’ospedale di Pisa, come si fa tutti, c’è trenta neri che ti vengono davanti. La Lega ha vinto in quella maniera”.

Orfini non si scompone: “A Pisa, come in larga parte del paese, la Lega ha preso i voti sull’immigrazione. Ora, è ovvio, se uno va all’ospedale e trova un nucleo di immigrati particolarmente aggressivi o vive in un quartiere dove delinquono poi tutto questo produce una reazione. Ma la risposta a quel problema è garantire la sicurezza, il controllo del territorio, dare gli strumenti a chi deve farlo”. Però attenzione, dice Orfini, non è stato solo Salvini a “costruire l’idea che la sicurezza e l’immigrazione siano due cose legate, e non è così, perché i delinquenti possono essere italiani o immigrati. Se accetti quel nesso vince Salvini. Il tema non è indicare il nemico da fermare. Perché se la sicurezza tu la garantisci fermando l’immigrazione – e accetti quindi questa lettura – allora ha ragione Salvini: bisogna chiudere i porti, affondare i barconi e chiudere le persone nei lager in Libia, come sostiene Salvini. Noi dobbiamo rifiutare la lettura per cui immigrazione e sicurezza sono collegate. Poi, certo, dobbiamo garantire la sicurezza, e questo significa che quando un immigrato o un gruppo di immigrati delinquono devono essere presi, messi in galera o rimandati – garantendo che ci restino – nel loro paese”.

Ma, dice Orfini, “la battaglia culturale per spiegare agli italiani che non si può indicare il nemico ma bisogna garantire la sicurezza non l’abbiamo fatta. La ragione per cui a me è capitato di discutere con Minniti è perché se tu sei il ministro dell’Interno di un governo di sinistra e dici che l’immigrazione mette a rischio la democrazia, come capitò di dire a lui, accetti la lettura di Salvini. Non lo puoi dire, perché se l’immigrazione mette a rischio la democrazia, è lecito fare quello che fa Salvini. Per fortuna non è vero che l’immigrazione mette a rischio la democrazia. Sono i delinquenti che la mettono a rischio, sono le mafie, la criminalità organizzata; poi, a volte, tra quei delinquenti ci sono anche gli immigrati”. Dunque, “se sei ministro dell’Interno devi dichiarare guerra alla criminalità, non indicare un nemico che ti serve perché non sei in grado di fare il tuo mestiere. Salvini questo sta facendo. Non è migliorata per niente la condizione di vita del nostro paese.

Io mi sono candidato a Tor Bella Monaca, zona peggiore in assoluto, elettoralmente per il Pd di Roma e piazza di spaccio modello Scampia tra le più grandi di Europa e le più controllate dalla criminalità organizzata. Salvini ci venne a fare una passeggiata in campagna elettorale dicendo ripulirò tutto. Ovviamente da quando è ministro, nulla è cambiato e nulla cambierà, perché l’attività che svolge Salvini è indicare il nemico. Prima sono i rom, poi sono i migranti, però non farà nulla per risolvere quei problemi, perché non ci riesce, perché non lo può fare perché non gli serve, perché continua a lucrare sulla rabbia nei confronti di quella percezione di insicurezza che, a volte, è insicurezza reale che i cittadini soffrono”. E allora “noi questo giochetto, questo incantesimo, lo dobbiamo rompere prima di tutto tra di noi e ricominciare a dire che non è vero che è tutta colpa degli immigrati, non è vero che noi non siamo nelle condizioni di accoglierli, non è vero che sono troppi, è che sono distribuiti male e integrati male, perché abbiamo fallito anche noi sulle politiche di accoglienza e di integrazione, e che noi abbiamo bisogno di mettere contestualmente le forze dell’ordine in condizioni di garantire il controllo del territorio e la sicurezza.

Dobbiamo recuperare, questo sì, l’idea che sicurezza è un grande valore della sinistra, perché della sicurezza ha bisogno soprattutto chi non se la può comprare da solo. Se tu sei ricco vai nel quartiere bene, dove non c’hai il problema della sicurezza. Se non te lo puoi permettere hai bisogno che quella sicurezza sia garantita dallo stato. Noi per troppi anni abbiamo lasciato il tema della sicurezza alla destra e poi per recuperare abbiamo accettato di declinarlo come lo declinava la destra, cioè legandolo al tema dell’immigrazione. Se continuiamo a fare così non è che Salvini vince a Pisa, vince ovunque. Da un lato, dunque, cogliamo il punto di verità che c’è in quel ragionamento, dall’altro ricominciamo a raccontare la verità agli italiani e a fare battaglie impopolari. Perché su questo tema dell’immigrazione abbiamo usato le parole della destra; perché avevamo paura del consenso che quelle parole avevano nel paese. Ma se tu usi le parole della destra, e questo vale sull’antipolitica quando usi le parole dei grillini, alla fine la gente vota l’originale”.

Intervista di Daniela Preziosi, Il Manifesto, 3 agosto 2018

Matteo Orfini, la prossima settimana la camera voterà il decreto per la cessione di 12 motovedette alla Libia. Al senato il Pd ha votato sì. Lei ora chiede un ripensamento. Perché?
Perché quello che sta emergendo sulle condizioni dei campi libici obbliga ad alzare l’attenzione sulla garanzia dei diritti umani. Soprattutto quando al governo c’è chi sembra non ritenere questo un problema di competenza del nostro paese. Ma c’è dell’altro.

Cosa?
In questi mesi sono emerse diverse verità sul comportamento della Guardia costiera libica, sulle modalità dei “salvataggi”, su alcune sovrapposizioni con i trafficanti di uomini. A fronte di tutto questo, prima di cedere altre motovedette alla Libia credo sia dirimente mettere dei paletti: la garanzia della cogestione dei campi da parte organizzazioni internazionali, e comunque un concreto salto di qualità nella garanzia dei diritti umani.

Smentireste il voto al senato?
Al senato il Pd ha presentato emendamenti che però sono stati bocciati.

Chiede di riproporli?
Sì, rafforzandoli. Dobbiamo chiedere a Lega e M5S, e soprattutto a chi come il ministro della Difesa si è detta molto preoccupata dai diritti umani, di accettare quegli emendamenti. Se non dovesse avvenire mi sembra complicato il voto a favore del Pd.

La pensano così anche i suoi colleghi deputati?
Su questa posizione c’è una discreta sensibilità nel Pd. D’altra parte sto dicendo cose in piena continuità con la storia del centrosinistra. Nel nome dei diritti umani abbiamo orgogliosamente svolto missioni militari dal Kosovo all’Afganistan alla Somalia. Spinti dall’idea che dove i diritti umani sono a rischio, la sinistra ha l’obbligo di intervenire.

Per questa idea in tutte quelle guerre avete rotto con la sinistra pacifista.
Ci sono state anche rotture, certo. Ma oggi noi non possiamo passare da quelli che intervenivano anche militarmente per il rispetto dei diritti umani a quelli che armano chi viola sistematicamente i diritti umani.

La cessione di motovedette però nasce da un piano, quello di Minniti, il vostro ministro. Non c’è il rischio che il Pd sia obbligato a votare sì per questo?
Su quel piano a suo tempo ho espresso le mie perplessità. Ma non è questo il punto oggi: quel piano prevedeva elementi da rivendicare, fra l’altro la verifica del rispetto dei diritti umani in Libia. Oggi la verifica c’è stata. Ed ha dato esito negativo, purtroppo.

Convocherete una riunione dei deputati dem?
Ne stiamo già discutendo nel gruppo e spero che troveremo un punto di sintesi. Questa vicenda ci deve far riflettere: siamo di fronte a una strage di massa in Africa, quelli che muoiono nel Mediterraneo sono solo una parte. Questo dramma per la sinistra non può essere ridotto a quanti ne sbarcano in Italia. La sinistra europea deve riscoprire il coraggio di una grande battaglia politica e culturale. Che in questi anni non c’è stata.

Anzi, voi avete fatto l’opposto: è il ministro Minniti ad aver inaugurato il confronto muscolare con le Ong. Poi sono arrivate le denunce della procura di Catania, e le inchieste. E poi Salvini.
E poi Di Maio e Salvini. Ma non si possono mettere sullo stesso piano le preoccupazioni espresse da Minniti con le accuse e poi le azioni di Salvini e Di Maio. Le inchieste sono finite in archiviazioni. Ma la propaganda che M5S e Lega hanno fatto contro le Ong ha prodotto il fatto che oggi nel Mediterraneo non solo non ci sono organizzazioni che salvano vite umane, ma neanche occhi che controllano quello che fa, ad esempio, la Guardia costiera libica.

Oggi l’Italia affida alla Libia il “salvataggio” delle persone che scappano dalla stessa Libia.
È indispensabile coinvolgere i paesi africani nella gestione dei flussi. Ma nel frattempo la soluzione non sono i respingimenti forzati che riportano le persone nel posto da dove scappano.

Cosa farà se il Pd non sarà d’accordo con lei?
Il tema non è convincere il Pd ma la maggioranza. I ministri Trenta, Di Maio, Salvini possono dire che il rispetto dei diritti umani è irrilevante? Il Pd comunque non può.

Ma se questi emendamenti fossero respinti, lei come voterà?
Sono il presidente del Pd, voterò la stessa cosa del Pd, che senza quegli emendamenti di certo non potrà votare a favore.

Intervista di Daniela Preziosi, il manifesto, 26 giugno 2018

 

Presidente Orfini, per Zingaretti  si chiude «una fase storica». Si chiude il renzismo?

Non so cosa intenda Zingaretti. Il 4 marzo c’è stata una sconfitta politica del Pd, domenica anche. Tutti avevano chiesto di affrontare la discussione dopo le amministrative. Ora possiamo farlo.

Calenda dice: andare oltre il Pd. 

Oltre il Pd oggi c’è la destra.

Questa è una citazione di D`Alema sulla svolta di Occhetto. Ma poi la svolta ci fu. 

Non risolveremo i nostri problemi ripartendo dai nuovi nomi di partito, dalle formule o dalla somma del ceto politico. Il tema è come riconquistare gli elettori che hanno votato a destra. La soluzione non sono le coalizioni larghe fatte a prescindere: le abbiamo fatte alle amministrative, non hanno vinto. Il problema è più profondo.

Calenda parla di fronte repubblicano, Renzi vagheggia un partito macronista fuori dalla famiglia socialista. Le piace? 

No. E lo dico nel momento di massima debolezza del Pse. Non ci ridaremo un orizzonte europeo sommando tutto ciò che non è populismo xenofobo. Se si vuole rilanciare davvero il centrosinistra non serve una grande coalizione Ppe-Pse. Serve lavorare a un soggetto europeo che vada da Macron a Tsipras.

Sui migranti c’è una posizione dei socialisti europei? Lo stesso Pd, con Minniti, è il precursore  della lotta contro le Ong di cui oggi in Italia si raccolgono gli amarissimi frutti con Salvini. 

Una delle scelte che hanno determinato la nostra sconfitta. Abbiamo sdoganato la lettura del fenomeno migratorio delle destre. Lo dico da tempo, da quando abbiamo cominciato a chiederci `quanti ne arrivano` anziché `perché partono`, una lettura che poi ci ha portato a dichiarazioni allucinanti, tipo che la democrazia è messa a rischio dagli sbarchi e non dalle mafie o dall’esclusione sociale. Qualche giorno fa Gentiloni ha rivendicato la diminuzione degli sbarchi dicendo che `abbiamo fatto fare meno affari agli scafisti`. Falso: gli scafisti hanno riconvertito le attività e si sono messi a gestire lager e vendere schiavi. È accettabile da una forza di sinistra?

Risponda lei.

Da me no. C`è chi si sorprende che il 60 per cento dia ragione a Salvini. A me sembra un miracolo che il 40 ancora no, nonostante il silenzio anche nostro. L`Espresso ha pubblicato un`inchiesta in cui si dice che questi lager sono stati costruiti su sollecitazione e forse finanziamento dei servizi. Sarebbe allucinante, appena ci sarà il Copasir mi occuperò di segnalare la questione.

Il Pd va ripensato, dice Martina. Ma per lei le coalizioni non servono. E allora che serve? 

Oggi si è cementato un blocco politico che cuba più del 50 per cento del consenso degli italiani. C’è un solo italiano che si aspetta da noi che ricomincino le dispute sulle coalizioni larghe o strette? Non credo. Il tema è fare un racconto nuovo, cose alternative a quel blocco. La sinistra ha perso l’egemonia culturale. La responsabilità è nostra ma anche degli intellettuali che hanno giocato con certi argomenti senza vederne i rischi. Anche noi abbiamo cavalcato alcuni slogan sui costi della politica.

Nel Lazio Zingaretti ha vinto con una coalizione larga. 

Sì, e con la destra divisa. Fosse stata unita avremmo perso. Il punto non è quanto allarghi la coalizione ma quanto convinci i cittadini. Rincorrere ceto politico non serve.

Da qualche parte dovrete pure iniziare per rimettere insieme una maggioranza. 

Non c’è dubbio. Ma la soluzione non è rimettere insieme vecchi amici come me e Stumpo (Mdp, ndr). Dobbiamo partire da un progetto che convinca i cittadini. Siamo stati percepiti come establishment perché a volte lo abbiamo difeso, di più nell’ultimo anno.

Ma Renzi non è il `nuovo`. Il Pd si può rigenerare se Renzi resta il più influente dei suoi dirigenti? 

Per un pezzo di ceto intellettuale e politico che si autodefinisce di centrosinistra, sinistra era essere contro Renzi. Ora Renzi si è dimesso. Dobbiamo continuare a discutere della purezza del suo sangue mentre la destra chiude i bambini in gabbia? Ripartiamo per inclusione, non per esclusione, ciascuno si misurerà sulle nuove idee. Discutiamo seriamente fino in fondo. Dobbiamo decidere cosa portare nella fase nuova e cosa va riconosciuto come un errore.

La legge Fornero e il jobs act sono stati errori? 

Lo sono stati la linea sugli immigrati, l’idea della democrazia come costo, il federalismo sbagliato. Invece il mercato del lavoro oggi è meglio di 5 anni fa. Infatti chi ha costruito un partito contro quelle scelte ha preso pochi voti.

Molti maggiorenti vogliono il congresso subito. Lo convocherà? 

Convocherò l’assemblea il 7 luglio e lì decideremo. Tutti invocano un congresso costituente. Con le nostre attuali regole il congresso è una conta su dei nomi che serve a ridefinire gli equilibri interni del Pd. Per aprire una fase costituente bisogna invece ripensare il Pd, le sue regole, darsi il tempo che serve per coinvolgere chi non ci ha più votato.

Non è che volete tenervi Martina segretario perché garantisce gli equilibri proprio con i renziani? 

Io mi sento garantito dalle mie idee, non da quello che decideremo il 7 luglio. Chi ha idee le può far vivere in un congresso o in una discussione più larga. Chi non le ha si affanna sulle procedure.

Il segretario del Pd sarà ancora il candidato premier? 

La legge elettorale non prevede il candidato premier, il candidato premier di fatto già non c’è più. Ma resto dell’idea che il leader del Pd sia scelto dagli elettori con le primarie e non dagli editori con i loro giornali.