Intervista di Fabio Martini su La Stampa, 30 giugno 2019
Matteo Orfini, lei era bordo quando la capitana ha scartato, forzando il blocco: in quel momento cosa ha pensato? Questa ragazza sta esagerando?
«In quel momento ho pensato: sei fossi io al suo posto, agirei esattamente come lei. Veniva da giorni di prese in giro e noi stessi ci eravamo spesi e ottenuto impegni da parte del governo: se c’è un accordo, scendono in cinque minuti. Lo stato a bordo era diventato insopportabile, per un atteggiamento del governo che non saprei definire altrimenti: agghiacciante. A freddo ho ripensato a quel momento. E mi sono dato la stessa risposta».
Già presidente del Pd, Orfini è appena tornato a Roma dopo ore a bordo della Sea Watch 3. Il più grande partito di opposizione, oltre a dare la risposta “giusta” in termini di coerenza con i propri ideali, dovrebbe sempre provare ad allargare consenso attorno alla sua politica: le pare che ci siate riusciti?
«Sicuramente su questi temi c’è sempre stata difficoltà a convincere l’opinione pubblica e per troppo tempo abbiamo rinunciato a farlo. Ma se una parte del Paese continua a dare una risposta sbagliata, non possiamo continuare ad andargli dietro: dobbiamo contrastarla. E per farlo, non bastano i tweet: servono atti concreti. Davanti al sequestro di 42 persone, era nostro dovere intervenire e aiutarli a scendere. Così si inizia una battaglia di opposizione».
Il prezzo da pagare per una linea umanitaria in questo caso è assecondare una violazione delle leggi.
«Ho molti dubbi che ci sia stata una violazione della legge. Davanti ad uno stato di necessità e per portare in sicurezza persone in quello stato, una nave può violare il blocco».
Lei ha rivendicato spesso la lezione di Togliatti. Ma lui dall’ospedale disse ai militanti: non occupate le prefetture! Lei ha sposato la cultura radicale della disobbedienza civile?
«Non c’è stata violazione della legge e dunque non c’è stata disobbedienza civile».
Ascoltando i discorsi a bordo, non le è venuto il sospetto che al primario obiettivo di salvare quei poveri cristi si sommasse quello di provocare il governo sovranista?
«Assolutamente no. La capitana lo ha spiegato: il porto più sicuro era Lampedusa. A bordo non c’erano militanti politici ma una ventina di persone che avevano il genuino intento di salvare delle vite e non avevano alcun interesse a cercare scontri».
Non le pare che il messaggio che arriva dal Pd sia: vanno accolti tutti?
«È evidente che la questione dei flussi non può essere gestita solo dall’Italia. Purtroppo la guerra in Libia ha peggiorato la qualità dei diritti umani, nei lager vengono perpetrati delitti atroci. Sperando di poter tornare un giorno a politiche come Mare nostrum, dobbiamo prendere atto della situazione di quel martoriato Paese».
Ma sugli accordi da rinnovare con la Libia, persino lei e Delrio che eravate sulla Sea Watch, avete idee diverse…
«Spero che nel Pd ci sia un’evoluzione positiva. Rinnovare gli accordi con la loro Guardia costiera non è più possibile: gli accordi raggiunti dal governo precedente non reggono più, perché è in corso una guerra civile. Spero che ci sia un consenso largo attorno a questa posizione».
Col governo Gentiloni gli sbarchi erano drasticamente diminuiti ma senza chiudere i porti…
«Non dimentichiamo il passato, ma neppure che lì c’è una guerra. E non dimentichiamo neppure la lezione del riformismo degli anni ’90 in Jugoslavia: la garanzia dei diritti umani viene
prima di tutto».